Proposta Radicale 7 2022
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Il Novecento

di Marco Pannella

(il 18 settembre 2003 sulla terza Rete RAI, nell’ambito del programma “Il mio 900”, va in onda un lungo racconto di Marco Pannella: racconta della sua infanzia sotto il fascismo, i suoi ricordi della guerra, l’incontro con Benedetto Croce, l’impegno politico, la fondazione del Partito Radicale. Come “teatro” della trasmissione Pannella sceglie quello che era il salotto studio a Napoli di Croce. Di seguito la trascrizione del suo racconto)

Nasco il 2 maggio del 1930, alcuni sostengono che mamma dovette sforzarsi per evitare che io nascessi il 1 maggio, festa dei lavoratori in pieno fascismo: si diceva che questo sarebbe stato interpretato politicamente, alle tre di notte. Sono abruzzese, molto abruzzese: è una razza di lupi, di orsi, poi però abbiamo anche il mare. E dove sono nato credo sia proprio esattamente fra il Gran Sasso, la punta del Gran Sasso e il mare, Giulianova.

Papà mi diede come nome Giacinto. Mamma accettò per via di zio Giacinto, monsignore, per il quale papà aveva una venerazione; e anche mamma, devo dire. Però convennero subito che sarei stato chiamato Marco, perché per mamma Giacinto si traduceva in Jacint, e Jacint era il nome che si dava alla recluta della Guerra mondiale, con tre narici e scemo, e allora disse no. E infatti da quel momento fui Marco.

Mamma era di famiglia svizzera francese: Estachon; e papà invece teramano, abruzzese. Lui era segretario politico del fascio, a Teramo; era del ’98. Nel 1917 va volontario in Guerra. Al ritorno va al Politecnico di Torino, ingegneria; quando si laurea pretende di andare a fare la specializzazione in quella che i francesi chiamavano la eau blanche, l’elettricità, unica in Europa; va lì: prende la specializzazione, ma soprattutto prende moglie. Papà torna in Abruzzo con la moglie con i capelli corti, che non sa parlare italiano, con le gonne anche un poco corte, con patente di guida: insomma, non proprio una sciantosa, una puttana, ma qualche sospetto c’era. Quindi nasco il 2 maggio del 1930 con mamma che è arrivata, ottima donna di casa, ma anche persona molto viva, molto vivace, diciamo molto moderna. Per cui a Quattro anni vado alla Montessori. La Montessori a Teramo non c’era, ma mamma era una donna di carattere, e volle che a Teramo ci fosse la Montessori. Con alcune amiche riuscì nel suo proposito, credo sia stata la terza Montessori in Italia. La integrazione, invece, per quel che ricordo fu massima subito. Ricordo tutte le famiglie di amici, di parentela con un ottimo rapporto con mia madre. Mia madre aveva fatto centro, aveva fatto colpo, ed era subito stata molto accettata. Un po’ meno dai contadini, perché lei non voleva che io parlassi dialetto. Ora Antonio e Rituccia che erano i miei vicini sapevano solo l’abruzzese; e io adoravo Antonio e Rituccia, anche perché siccome ritenevo che la “franzosa” mi tenesse troppo a stecchetto, io scendevo da loro, Antonio e Rituccia si mettevano uno dei due di guardia, per vedere se la “franzosa” arrivava, e mi davano una losca di pane con la salciccia cruda.

Per mia madre venire in Abruzzo nel 1927 era un po’ come andare in Algeria. Mi ricordo, per esempio che a tavola molto spesso l’acqua era calda, bollita. Guai a mangiare salcicce crude, e cose di questo genere. Io credo che devo la robustezza della mia costituzione storica anche al fatto che mangiavo due volte in quegli anni. Cioè mangiavo le deliziose cose che mamma sapeva cucinare e cucinava; e poi o la zia Vittoria, cugina del papà, mi dava di nascosto appunto salcicce; oppure Antonio e Rituccia, che facevano la stessa cosa.

Nel progredire della fascistizzazione del paese questa storia del parlare francese a casa cominciava ad essere qualcosa che seriamente non… anche mio padre aveva un po’ di timore per mia madre che aveva mantenuto anche la nazionalità francese; nel 1938 eravamo a Pescara, io facevo scherma e violino. Il professore di violino, Righetti, emiliano, era in cuor suo repubblicano e antifascista, ma insomma: non poteva neanche parlare. Gli faceva piacere parlare clandestinamente in francese con questo allievo di violino di otto anni. E con me parlava di “Les Temps”, che era il “Le Monde” di allora, e parlava di politica. Era lui che si sfogava, sapeva di poterlo fare, e trovava in me probabilmente un interesse molto intenso.

Avevo dei compagni di giochi, a Pescara, e tra i quali i bambini di una famiglia che era amica della mia, e del maestro di musica Righetti. E questa bambina, più grande di me, si chiamava Atria. Adoravo Atria: la guardavo, giocavamo sulla spiaggia, palla prigioniera e altre cose, e si scherzava, e io dicevo che ero fidanzato con Atria. Sta di fatto che un giorno Atria non arriva, non mi ricordo, ero anche geloso perché c’era un altro ragazzino. Non viene più Adria, e allora piangevo perché non sapevo perché. Finché dal maestro Righetti vengo a sapere cos’era successo: “Son partiti in ventiquattr’ore”. Perché? “Perché sono ebrei”. Insomma, le leggi antiebraiche, razziali. E lì quell’estate è stata centrale per tutta la mia vita, in fondo nasce lì nei suoi connotati maggiori. Nell’estate del ’38 per esempio mi mandano per un mese, per un mese e mezzo, in Francia alla Croisad, dal segretario comunale e maestro, ospite, per fare francese. Quest’uomo si era sposato da due mesi, dopo essere stato vedovo, con la figlia del fornaio. C’era un figlio, Emile, e io dormo nella stanza di Emile che parte per fare il militare, non vuole andarci, dice che è una stupidaggine, che che che… E si parlava in qualche modo di obiezione di coscienza. E poi mi dice che litigavano il papà e la mamma. Emile parte, non fa obiezione di coscienza; e a questo punto prima violenta scenata perché bisogna decidere se io dovevo dormire con lui o con la signora, perché appunto i due non dormivano più insieme. Cominciano a volare i piatti. E allora lei mi racconta delle cose, lui delle altre, e a questo punto sento parlare di divorzio. Allora: incontro il divorzio, l’obiezione di coscienza, le differenze sociali, sento parlare che il ragazzo è andato a fare il militare e teme di dover fare la Guerra, collego tutto: a un tratto si interrompe il soggiorno, raggiungo la famiglia.  

L’atmosfera è questa: sta per scoppiare la Guerra, mio padre non risponde, sento molto nervosismo. Insomma un telegramma non era mai stato recapitato, diceva: pericolo di Guerra, vieni a prenderlo subito. Mio cugino Marc, di tre anni più grande, rientra in giardino in mano ha un giornale, c’era la notizia che un giovane ufficiale italiano con tre soldati italiani avevano disertato perché non volevano fare la Guerra. Dovevano essere valdostani, non ricordo. E quello è un momento di emozione, con Andrea, con Marc, i miei cugini, ci vogliamo bene, che bravi quelli là, e incontro così anche i disertori: obiettori di coscienza festeggiati come qualcosa che ci consente di non spararci tra di noi, e questo è il primo incontro vero che ho con la realtà della diserzione della Guerra.

Allora, riassumendo: Adria, l’amore, quanto fosse legata vita pubblica e vita privata, gli ebrei, le leggi razziali, il maestro Righetti che si dimostra un antifascista così capisco che l’avvocato Manna che abitava sotto casa nostra doveva essere antifascista pure lui, il divorzio, l’obiezione di coscienza, i disertori che sono belli, credo che dopotutto già tutta la mia vita sia concentrata qui.

Scoppia la Guerra. La Francia entra in Guerra, e a questo punto l’Italia non si sa che cosa fa. Certo a casa è un problema. Mamma ha anche la nazionalità francese e già si comincia a dire che l’Italia rivendica Nizza, la Corsica, la Savoia. I timori ci sono. Comunque la Guerra scoppia.

Ricordo chiarissimamente sul corso Umberto di Pescara la mattina le radio a tutto volume. Credo di ricordare la voce di Mussolini che dice: “Stamani i nostri ambasciatori a Parigi e a Londra hanno consegnato la dichiarazione di Guerra”. E attraverso la radio gli applausi frenetici, questo lo ricordo.

Tre anni e due mesi dopo, invece, ero a Teramo, nella casa delle zie dove eravamo sfollati, perché il 20 luglio c’era stato il bombardamento a Roma, e ricordo che mi stavo svegliando e sentivo la radio, e sentivo nella stanza accanto a quella da pranzo le tre zie zitelle, deliziose, e mamma, che stavano parlando. E loro non sentivano, io invece sì, che al giornale radio delle otto, anche se ero un po’ distratto dalle voci delle donne, che dice: “Il Gran Consiglio del fascismo ha dato la sfiducia a Mussolini e il generale Badoglio…”. Caccio un urlo, e ricordo insomma quella mattina, con la notizia della caduta di Mussolini. Sotto casa nostra, sempre sotto il terreno nostro, un grosso recinto in muratura, con dentro automezzi dell’esercito, militari. So semplicemente che la mattina andiamo a prendere le uova dalle galline, per fare l’uovo sbattuto della mattina, si apre, e che cosa è successo? Quel recinto era aperto, spalancato, non si sentiva nulla, non c’erano macchine parcheggiate, erano tutti andati via. L’8 settembre. L’ordine era stato: ciascuno a casa sua, mio padre arriva, dimagrito di venti chili in tre mesi, perché non aveva fatto il digiuno, non si usava nella famiglia Pannella evidentemente, era rimasto traumatizzato dalle notizie apprese sul fascismo, su Mussolini, la Petacci, lui era anche molto colpito da queste cose. Arriva, era un’altra persona, poi in divisa. Arriva e dice: “Vado incontro all’esercito alleato, con il re”, e quindi sta dall’altra parte e siamo al 12-13-14 settembre. Fatto sta che ci abbraccia e sappiamo che il fronte si sta stabilizzando, ma vediamo i tedeschi la grande ritirata dei tedeschi, per due o tre giorni di seguito, giorno e notte. Buoi sull’asfalto, con i loro contadini. I tedeschi in ritirata avevano preso in tutte le campagne i buoi e i contadini per portarseli via come sussistenza. Questo per due o tre giorni.

Rientro a Roma, andammo con un camioncino FIAT e avevamo un po’ di roba che avevamo portato dallo sfollamento, in cabina c’era Narduccio, mamma e Liliana, mia sorella; e io stavo sopra, con le corde, faceva un po’ freschetto. Ma per tornare a Roma che era stata devastata, da Teramo, in montagna non c’era l’autostrada, e dovemmo quindi raggiungere la Salaria, ci mettemmo diciannove ore, non fu molto facile. Arrivati a Roma, eravamo nel ’44, lì comincia tutta la storia.

Io rubavo tutte le mattine degli spiccioli a papà, intanto per comperare due copie del “Risorgimento Liberale”, all’inizio era un solo foglio, poi due. Ne portavo due a scuola, e ogni tanto riuscivo anche a rimediare un etto di cioccolatini. La scuola era di fronte a casa, e prima di andare leggevo il “Risorgimento Liberale”, ed ero felice che anche i compagni lo leggessero, se no quando mai. Ne comperavo così due copie, compatibilmente ai piccoli furti nei taschini o i pochi soldi che mi si dava.

Probabilmente c’è questo: intanto dall’insegnamento della scuola media c’era il Risorgimento che si salvava perché era liberale, e quindi c’era proprio questa nozione scolastica: il risorgimento e l’unità d’Italia che si fa ed è liberale. Non c’erano altri punti di riferimento. Poi c’era appunto il comunismo. Ma lì c’erano anche cose concrete: la Jugoslavia, dall’altra parte, la dittatura bolscevica, quelle cose che vedevamo, e io devo alla sorte quello di avere sentito appunto il risorgimento liberale, che il problema era quello di scegliere la libertà politica contro le illusioni delle scorciatoie. La scorciatoia fascista, la scorciatoia comunista, l’allungatoia clericale, tutto quello che si era vissuto fino a quel momento senza la libertà politica.

Arrivo con Gino Roghi, in via Frattina 89, sede del Partito Liberale, e ne esco quando ne esce il liberalismo, insomma. Però la storia, a questo punto, è una storia ininterrotta. Negli anni di questa storia che cosa accade? Che un anno e mezzo dopo stabiliamo con pochi amici liberali all’università che bisogna fare qualche cosa per Trieste italiana. E significa anche Trieste liberale. Perché Tito ancora non aveva rotto, e c’erano le foibe, in corso. Questo era l’ambiente e la realtà.

Allora mi viene in mente di andare a chiedere al presidente del partito, a Benedetto Croce, la sua benedizione. Tutti quanti: “Sei matto? Non te la darà mai”. Io dico ma no. Chiedo lì al partito di essere ricevuto da Benedetto Croce, la rapidità con cui lui dice sì, prendo arrivo a Napoli, mi accolgono qui, mi accoglie qui, gli spiego la cosa, mi ascolta, scrutandomi molto, lo guardo – mi sembra strano: mi sembra che mi abbia accolto davvero questo lo dissi subito – e lui mi dice: “Se devi fare questa Marcia…fatela, io poi interverrò. La cosa è bella, però è imprudente”. Aveva paura che ci si rimettessero anche le esistenze, arrivando in Venezia Giulia, a Trieste. Va bene, a quel punto si comincia poi…guardi la sua famiglia e la famiglia Croce sono famiglie legate da parentele, un po’ lontane, ma legate da consuetudini e da parentele, io francamente questo non lo conoscevo se non a livello di amicizia, e lui mi ricostruisce e poi mi chiede che studi faccio, e come mai così giovane sono lì, e sono stato qui due ore, due ore e mezzo…

Nella sinistra liberale, nel Partito Liberale, viene nel 1953 la convinzione, giusta o errata, e che io credo evidentemente giusta, che Giovanni Malagodi, che tra l’altro entra nel PLI presentato da Mario Pannunzio e Adriano Ruffini, (cioè proprio dalla sinistra liberale), se ne era impossessato. Nel 1955 la sinistra liberale si accorge che Malagodi l’ha ridotta al lumicino, in termini di manipolazioni, di tessere, di congresso, e a questo punto…

Io già nel 1952 avevo detto che Malagodi era un uomo di statura molto maggiore di quella che si credeva. “Cari amici della sinistra liberale: fate torto a voi o fate torto a lui, di ritenerlo semplicemente una persona priva di ideali, di volontà di scelta politica, quindi sbagliate”.

Anche sull’onda anche del grande successo dell’Unione Goliardica Italiana che avevamo avuto, nelle università, quasi anche a livello di docenti, non solo a quello di studenti, creai la Giovane Sinistra Liberale, che è la prima organizzazione politica del dopoguerra con la doppia o la tripla tessera, questa cosa così radicale: 1953. Si iscrissero a quel punto alla Giovane Sinistra Liberale socialisti, socialdemocratici, repubblicani, liberali, indipendenti, e costituimmo l’intelaiatura organizzativa, la ragnatela, perché era un filo, di quello che poi sarà il Partito Radicale: che in realtà, poi, non raggiungerà più di 1500 iscritti.

Dinnanzi a tutta questa storia clericale dobbiamo passare anche ad iniziative più intellegibili non solo a coloro che …ma anche alla storia. E allora dico che dobbiamo riuscire a fare un anno di manifestazioni culturali, ma anche per esempio c’è la Roma delle lapidi di tutti gli impiccati da Giordano Bruno in poi, dal Papa, dalla Controriforma, e dal papa re, di cui non si sa nulla: la gente ci passa e non sa. Riconsacriamo queste lapidi che ci sono a piazza del Popolo, a Campo de’ Fiori e noi eravamo ormai gli unici, politici, che continuavamo ad andare a piazza Campo de’ Fiori nell’anniversario della morte di Giordano Bruno, ci si riusciva ad andare da sempre, sembravamo dei cospiratori, un po’ fantasiosi, devo dire, non avevamo l’aria troppo severa, avevamo le pezze al culo, e lo spinello in bocca, insomma.

Nel 1968, mentre noi qui avevamo l’Anno Anticlericale, la battaglia sul divorzio, già cominciavamo a parlare dell’aborto e dell’obiezione di coscienza, già ne parlavamo e lottavamo, facevamo le marce antimilitariste, accade l’invasione della Cecoslovacchia, dopo l’Ungheria. La Cecoslovacchia che ha un suo sviluppo, arrivano i carri armati sovietici, il PCI e gli altri tutti quanti sono compagni, e allora che facciamo…Ci vediamo con un po’ di compagni e con la War Resister’s, che è un’associazione vecchia gandhiana, pacifista, che stava a Londra, un pugno di persone e diciamo: “Qui c’è da fare una grande cosa. Riandiamo a farci arrestare a Mosca, nelle capitali dell’Est europeo, a denunciare nelle loro lingue che violano la loro stessa Costituzione, le loro stesse leggi”.

Ci mettiamo artigianalmente a redigere un testo in bulgaro, un testo in tedesco, in polacco e in russo, e poi ciclostiliamo a mano dei volantini ne facciamo migliaia di copie. Mi ricordo la notte prima di partire stavamo a fare i doppi fondi delle nostre valigie, con dei compagni: insomma, da ridere, per non farci fregare dai poliziotti. Io avevo scelto la Bulgaria perché in quel momento appariva il paese più pro-sovietico e arretrato. Quindi andai in Bulgaria con l’”Orient Express”, pensate treno mitico, Greta Garbo, bocchini. E l’”Orient Express”, arrivato alla frontiera jugoslava e bulgara, si fermava ogni cento metri per far salire un pastore con le pecore, ed era l’”Orient Express”. Insomma, arriviamo in Bulgaria nel 1968, c’era la mostra di Gagarin me la ricordo a Sofia, e andiamo lì, ci troviamo in mezzo alla propaganda di Gagarin, e ci mettiamo le nostre cose: “Voi siete tra coloro che oggi mandano i propri soldati in Cecoslovacchia, contro i fratelli e compagni cecoslovacchi, e fate ben peggio di quello che si dice che facciano gli americani, perché quello che fate è contro la Costituzione socialista…”. Poi come si fa? Si andava nelle bettole, nei gabinetti, non c’era la carta igienica, c’era un pezzo di ferro con dei pezzi di giornale, e noi abbiamo trovato quello e abbiamo cominciato a metterli lì. Insomma, per tre giorni abbiamo girato così, a piedi, quindi lenti. Nessuno però ci ha denunciati. Alla fine poi decidiamo di farci arrestare perché quell’ora X a Mosca, e nelle altre capitali dappertutto, siamo andati nella piazza principale, abbiamo svolto lo striscione: “Viva la libertà, viva la pace”, una cosa in bulgaro, andiamo lì, a questo punto I poliziotti che si schierano subito, fermano il traffico, pensavano fosse una manifestazione autorizzata, e non ci arrestavano. Poi era a duecento metri dal palazzo dell’OVRA loro, del KGB loro, e alla fine vengono. E lì vabbé. Lo stesso era accaduto nelle altre capitali. Bene: la stampa, siamo nel 68, di tutta Europa parla di questa nostra azione, quella italiana quasi niente.

Alla prima Marcia antimilitarista io avevo alla mia sinistra il commissario Luigi Calabresi, e alla mia destra Pino Pinelli. Parlammo. Queste sono storie forse chi è più giovane non può capire. Ma ricordo che si marciava: Calabresi, lui, era lì come poliziotto, doveva seguirci come commissario, e mi diceva: “Mi permette di…”. Io gli dicevo:” Sì, ma deve mettersi un cartellone addosso anche lei”. E Pino Pinelli, aveva avuto anche lui un ammonimento dal circolo della Ghisolfa, perché aveva aderito alla nostra Marcia, che era nonviolenta, e il circolo della Ghisolfa diceva a Pino che non poteva stare in una cosa nonviolenta, e Pino diceva: “Ma sì, il commissario è bravo, sai mi ha regalato l’antologia di “Spoon River”, a Natale. Ecco, anche questa è storia d’Italia, ma siccome è storia radicale è ignorata anche in questi dettagli.

Il FUORI aveva accettato la nostra proposta, e diventa: FUORI, movimento di liberazione sessuale degli omosessuali italiani. A quel punto noi comunichiamo che tutte le sedi radicali diventano anche le sedi dei perseguitati, degli omosessuali, dei froci…Apriti cielo! Il problema è che noi in quel momento avevamo tre sedi in tutta Italia, allora tutti pensavamo cinquanta, settanta, e su questo scoppia l’iradiddio e il dibattito. Scoppia quello che non c’era donna, uomo, persona di novant’anni, o ragazzino di undici anni, che non è stato scosso, non ha cominciato a riflettere. Un momento: le prestigiose sedi di Pannunzio e degli altri dovevano essere quelle, ed erano quelle con i sottoproletari delle anfetamine, gente che usciva dalla prigione e non sapeva dove andare, e poi quelle delle marce antimilitariste, e invece la gente di piazza Navona, erano ì luoghi dove si facevano gli aborti. Cioè noi abbiamo fatto la autodenuncia dicendo in tutte le sedi radicali la polizia sappia, venga, che noi facciamo gli aborti. Che sono vietati perché…dobbiamo impedire che le donne se ne vadano all’estero o se lo facciano fare dalle mammane, e ci muoiano, noi lo facciamo con il metodo Karman, per aspirazione…

Bene, ci sono I froci, fanno le loro cose perverse, ci si droga, perché fumavano la marijuana, si deride la patria perché siamo gli obiettori che…poi traviamo il proletariato, il comunismo, la cosa tutto quanto, figurarsi. Poi bestemmiamo, e in più si fanno gli aborti illegali…Solo che le sedi allora non c’erano. Insomma, era più la reazione…Abbiamo campato così, le sedi, erano i nostri corpi, le nostre facce. Prendevamo gli spunti, gli applausi, era la nostra storia.

Il divorzio: non facciamo la battaglia tentata dal deputato Sansone, socialista, solo per i matrimoni civili, non per quelli religiosi, ma la facciamo per tutti, e lì passiamo all’attacco della Sacra Rota, in particolare Mauro Mellini, che per esempio rende pubblica questa mostruosa giurisprudenza della Sacra Rota, nella quale se sei aristocratico e se paghi, hai magari sei figli, ma ti danno l’impotenza coeundi et generandi, un museo degli orrori. La prima manifestazione grossa che facciamo grazie anche all’aiuto di “ABC” e di Enzo Sabato, con un auto e con uno striscione, a piazza del Popolo è il giorno dell’inondazione di Firenze. Piazza del Popolo fu piena, nessuno ci credeva, e a questo punto la cosa curiosa che accadde, i giornali italiani non troppo, ma tutti i giornali stranieri, russi, australiani, americani, nella città del papa, si parlava di divorzio…

C’erano obiettori di coscienza direi di tipo confessionale, non direi neppure religioso, cioè i testimoni di Geova: loro facevano servizio in carcere, e lo facevano anche il senso ammirabile, nel senso che nelle carceri avevano realizzato una forma di propria autonomia organizzativa che era quasi una sotto-gestione nel carcere. Era già diverso. Poi c’era Pietro Pinna, che fu il primo obiettore di coscienza capitiniano, gandhiano, che era politico, chiaramente politico. A questo punto noi, con in modo particolare Roberto Cicciomessere, m avemmo una decina circa di obiezioni di coscienza pubbliche, con arresti come facciamo noi: guardate che se non arrestate, vi denunciamo per omissione di un atto dovuto, cose insomma che facciamo sempre, abbiamo creato una situazione parlamentare, di maturazione di progetti, in termini regolamentari. E lì ricominciammo i nostri scioperi della fame perché si rispettassero i termini stabiliti dai regolamenti. Finché arrivati nel 1972 ci parve il momento di fare l’azione molto dura: eravamo duecentottanta radicali iscritti in tutta Italia, e mettemmo l’obiettivo: o mille, o ci sciogliamo, perché non ce la facevamo più. E ci fu un congresso a Torino, li facevamo il 1 novembre fino al 4. Arriviamo lì in sciopero della fame, con Alberto Gardin e i mille si raggiunsero nel corso del congresso. Appena finimmo il congresso in cui eleggemmo segretario Angiolo Bandinelli, ce ne andammo in automobile a Nizza, perché eravamo stati avvertiti che il presidente della Camera Sandro Pertini stava lì con la sua pipa e la sua cosa, a Nizza era stato lì antifascista esule e resistente, e lui ci accolse con molto affetto e guardando soprattutto Alberto – perché con me c’erano già state discussioni, al tempo del divorzio c’erano stati dissensi sui tempi, non è che avesse un carattere facile, aveva un carattere di merda, tanto per dirla, ma era un personaggio favoloso, e lo sapevo – dunque andiamo lì, ci abbiamo messo l’iradiddio di tempo per andare in automobile da Torino a Nizza. Noi andammo lì a dirgli: questo è il momento per votare, devi far votare. Sì, sì, lui ci disse assolutamente sì, e ci teneva più a dire da socialista liberale: insomma, non vi preoccupate, io sono d’accordo e quindi…

E noi: ma no, tu devi far rispettare il regolamento. Era divertente, questo. Ce ne andammo subito al Senato, per ottenere – eravamo arrivati al quarantesimo giorno di digiuno, si faceva sentire ed eravamo anche un pochino preoccupati i medici, ci facevamo un paio di palle che non finivano più, ogni volta girare con quelli che ti dicono: mo’ muori, mo’ muori…poi alla fine è la cosa più pesante. E accade che alla fine le persone che ti vogliono più bene diventano poverette, matte loro; e andiamo da Fanfani. È stato lealissimo nelle sue funzioni. Sul divorzio, sempre. Siccome sapeva che noi gli chiedevamo il rispetto del regolamento, c’era questa suo modo di fare un po’ toscanaccio che gli faceva piacere perché così gli permetteva di rompere ancora di più le scatole oltre alla sua autorità. Io a questo punto dissi: “Alberto: Sandro Pertini ci ha assicurato che si voterà. La maggioranza ce l’abbiamo. Il problema era Fanfani, ma anche lui…”. Torno a casa e dico basta: tre brodi knorr, un mucchio d’acqua, tre etti o quattro di passa De Cecco, dopo un panetto di burro, cento grammi di parmigiano grattugiato…stavo quasi finendo e arriva Alberto: “No, non si può”. E mo’ che faccio, torno indietro? E cominciai a discutere con lui, e insomma: lui ha fatto un giorno di più. Ma alla fine l’avemmo: la legge fu votata.

Nel 1963, inaugurazione dell’anno giudiziario a “Palazzaccio”, facemmo striscioni con su scritto: “Due grammi di hashish due anni di galera”. E dopo undici anni di queste cose, a questo punto, siamo ai progetti di depenalizzazione del consumo. Non è che questa fosse la nostra posizione: ma insomma si comincia da lì. Qui il problema è come adesso: rimanda che rimanda, intanto quelli stanno in galera, poi gli indulti fanno trenta progetti poi non li votano se non…E noi dicemmo no: a questo punto è urgente, è necessario che anche questa cosa venga votata. Allora: a via di Torre Argentina, telegrammi, alla procura della Repubblica, alla Questura, ai giornali, a tutti: domani disobbedirò…sta di fatto che alla fine si piglia e fumo lo spinello. E me lo preparano. Ressa a via di Torre Argentina, giornalisti stranieri, la polizia. E io comincio facendo l’appello: c’è la procura generale? No. Come non c’è? Alla fine piglio e fumo. Non faccio in tempo a tirare la prima boccata che subito vengo bloccato e imbarcato per Regina Coeli. E va bene. La sera i telegiornali, figuriamoci stavamo in tre in una cella, ma soprattutto in quel momento chi è che teneva in ordine le carceri? Tutti i boss. E veniva il povero comandante, il povero maresciallo, niente, che casini in quel periodo, e allora se non mi mangiavo gli spaghetti dalla famiglia A, il pollo con I peperoni in quell’altra, se non andavo era un casino, insomma, stavo crepando, non riuscivo a dormire perché mi venivano a salutare, dovevo mangiare con tutti, er tartaruga, er coso, insomma, non vi dico lì, comunque una vita splendida. A questo punto contemporaneamente mi chiamano, per un processo per vilipendio in corte di assise. Allora: io che sto lì, la mattina mi devono trasferire, al tribunale, non con le manette, con I ferri, perché ho la corte d’assise. E lì “l’Espresso” fa la copertina, non si capisce più niente, se mi stanno processando per la droga, mentre invece mi processano per il vilipendio, in corte d’assise, arriva Franco de Cataldo, che rilancia la questione. E a questo punto mi fanno sapere, la provvisoria me la danno subito. Ma io non la voglio. Mi chiedono: “Perché?”. Perché se non ottengo dal presidente della Camera e del Senato l’impegno a rispettare i regolamenti, io non la chiedo. A un certo punto l’impegno è stato dato, dai presidenti della Camera e del Senato, così poi a settembre la legge fu votata, e si è avuto in Italia la depenalizzazione del consumo.

Noi siamo in cosiddetta democrazia, non è vero, ma comunque, diciamo noi siamo in democrazia. Lo stato di diritto sul piano tecnico…è un insulto. Però questo è un partito che in piena democrazia I cui segretari, per esempio, sono tutti andati in galera. Ma dirò di più: non tanto quanto ci dovremmo andare. Perché a forza di questo stato non è adempiere la legge. Tutto qui. Preferiscono, a questo punto, con I poveracci se li dimenticano in carcere, ma noi invece si lascia perdere e passa molto tempo. Ecco lo stato di non diritto nel quale viviamo, e lo abbiamo fatto tutta la vita. Per il radicale disobbedire, come per Socrate, è il modo attraverso cui la polis, la città, viene a riflettere, è indotta a riflettere sulle leggi o sulle interpretazioni delle leggi dei magistrati che ritiene brutta e che può essere corretta solo in questo modo, perché in altri non ce la fai.

Arriviamo alla campagna referendaria nella quale si stabilisce che noi promotori dei referendum possiamo andare una volta, quarantacinque giorni prima per illustrare Quattro referendum, poi fino al momento del voto, per quarantacinque giorni, non possiamo prendere la parola. E nel frattempo i partiti, sì, i partiti erano tutti contrari a questi nostri referendum, tutti, non ce n’era uno che fosse favorevole. La mattina dobbiamo registrare alle dieci e mezza. Vedo, ma tu che hai pensato, Mauro? Peggio che niente. Emma e io pure, peggio che niente. Il problema era che noi dovevamo far capire in questo modo, spiegare che si emette silenzio e censura, e guardate che l’idea di emettere silenzio e censura è già una contraddizione, perché tu le dici. E allora dovremmo metterci il bavaglio, e a questo punto l’idea di metterci il bavaglio e metterci come Moro. Noi decidiamo di fare questa cosa, e Jader Jacobelli che cercava di convincerci che bastavano cinque minuti, io un po’ cocciuto, testardo: no, no, no. Avevamo un po’ di dubbi. Ma figuratevi, a settecentomila persone, diranno chi se ne frega. E abbiamo messo il bavaglio. Poi mi hanno raccontato cos’è stato. Il particolare è che nell’altra rete – perché c’erano due reti – c’erano i cartoni animati, non so Paperino o che, bellissimi, e allora i genitori ma guarda sta buffonata, mentre i ragazzini no, volevano vedere come andava a finire. E c’avevano ragione. Poi mi hanno raccontato di molti casi mi hanno anche raccontato che prendevano a cazzotti la televisione perché il sonoro non funzionava. Credo ci fosse pertinenza tra il mezzo usato, la realtà, cioè, rispetto ai temi referendari, la nostra vita, tanto più si parlava, tanto più si parlava per cancellare.

Noi emettiamo silenzio nella realtà italiana. Le nostre cose più importanti non le fanno conoscere. A un certo punto accade con noi questo: magari se si arriva a fare lo sciopero della sete, e a bere le nostre urine, perché all’indomani si crepa, a un certo punto la cosa si sa. Si faccia conto che un tenore canti un’intera opera, poi arriva uno…niente, lo si vede che si alza, che si muove, ma non emette suono. A un certo punto, arriva un dò di petto, un grido da foresta, da matti, e arriva gente che ti dà del matto. Ma non ci sono le nostre spiegazioni, le altre cose. Tutte le lotte che abbiamo condotto sono lotte vincitrici, ma per vincerle abbiamo dovuto fare dieci, venti, trenta, quaranta, cinquanta urli, e neanche ce li ricordiamo più. E andiamo avanti. Settanta proposte di referendum, che cosa voglio dire? Che noi abbiamo tempo per dire NO, perché settanta volte cinquecentomila cittadini nelle condizioni che sappiamo hanno sottoscritto le più inaudite cose, e quindi non siamo conosciuti a noi stessi. Le doppie e le triple tessere, la transnazionalità, i ceceni, la provocazione: noi vogliamo israelizzare il Medio Oriente. Ahò! Sharon l’assassino. Ma cosa vuol dire? Noi vogliamo che gli arabi, e gli islamici, I musulmani, abbiano in tutto il Medio Oriente – attenzione! – garantiti quei diritti che gli arabi cittadini di Israele hanno. Questa è provocazione? Ma come facciamo se solo con un “do” di petto ogni tanto riusciamo a raggiungere, con grida belluine, gli altri, sperando che alla fine comprendano: ma che cosa vuole dire? Anche il grido…chi è disperato, forse non grida, rinuncia anche a gridare.

Marco Pannella, il radicale, che dovendo fare un po’ la sintesi, o concorrere a fare una sintesi, di cinquanta, sessant’anni di vita, lo fa dalla biblioteca di casa di Benedetto Croce e dicevamo che l’unità è quella di padre in figlio, l’unità della storia, della vita, di quelli che si trovano ad eleggersi e ad essere eletti, e allora trovo splendido che la famiglia di Benedetto Croce, Elena che non c’è più, ma Silvia, Alda, Lidia, e che i nipoti, Marta, tutti quanti, abbiano avuto nei miei confronti lo stesso sentimento, la stessa ricchezza che ebbe don Benedetto nel 1947, di fronte a questo bestione radicale che allora era un po’ esile, era quaranta chili fa, ma insomma questo bestione che era venuto a dirgli che bisognava andare a Trieste eccetera. Allora, stare qui, perché questa televisione possa respirare e trasmettere, beh, io questo lo trovo bello, può essere una forma di riconoscenza, di ri-conoscenza, e anche di riconoscimento dire che io scelgo simbolicamente di ringraziare l’amicizia, l’affetto, l’ospitalità che Alda in particolare, che la famiglia Croce oggi ci dà, la dà a noi e voi tutti, è davvero la pietas erga lares, rispetto ai nostri ideali e a coloro ai quali dobbiamo la vita è credo la forma più certa di costruzione del futuro e non semplicemente riconoscimento del passato. Allora, “rivoluzione liberale”, riforma: riforma religiosa e riforma morale, umana. Amore e scandalo, come libertà, come la libertà.

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